Le prime ricerche universitarie nel campo delle piante agrarie risalgono alla seconda metà del diciottesimo secolo, quando, sotto la spinta delle carestie e delle epidemie, alcuni docenti cominciarono a fare ricerche sull’alimentazione umana e sui suoi effetti sanitari. La ‘sitologia’, un termine ormai desueto con cui si indicavano gli studi sull’alimentazione, entrò a far parte del curriculum degli
insegnanti di botanica, una disciplina che in quel tempo stava superando la sua antica impostazione esclusivamente medicinale. Annibale Mariotti, che ricopriva le cattedre di medicina e di botanica, cominciò a parlare di piante alimentari intorno al 1785 e nel 1799 venne coinvolto dai giacobini in una riforma dell’Ateneo tesa a formare tre figure professionali: i medici, gli agricoltori e i botanici, che con la loro opera avrebbero dovuto risolvere i problemi sanitari ed alimentari dell’Umbria. La Restaurazione del potere pontificio impedì la realizzazione della riforma giacobina, ma la via della modernizzazione dell’Ateneo era ormai tracciata.
Durante il secondo periodo francese, nel 1810, vennero finalmente istituiti i primi insegnamenti agrari nell’Ateneo, con la chiamata di Domenico Bruschi che ricoprì la cattedra di “Bottanica e agraria” e cominciò a realizzare un Orto agrario attorno alla sede universitaria. Con la fine dell’avventura napoleonica, anche questi primi insegnamenti agrari vennero gradualmente abbandonati, e si dovette aspettare il 1848 per riavere una cattedra di agraria nell’Università.
A ricoprire la cattedra vennero chiamati, dal 1848 al 1864, tre docenti: Antonio Codelupi, Antonio Galanti e Raffaele – Raffaello Antinori, fratello di Orazio Antinori e ‘padre dell’agronomia umbra’. Tutti e tre i docenti erano partecipi del grande rinnovamento che gli studi agronomici stavano attraversando in quegli anni e tutti erano allievi o corrispondenti dei più famosi agronomi del tempo, da Cosimo Ridolfi a Pietro Cuppari. Nell’Orto agrario, associato alla cattedra, i docenti sperimentarono le nuove colture che i colleghi delle altre regioni spedivano a Perugia. I contatti con le altre realtà furono importanti anche per la costituzione di un primo gabinetto agrario e per le dimostrazioni in campo dei primi attrezzi agricoli perfezionati, provenienti dagli Stati Uniti e di principali paesi europei. L’annessione al Regno d’Italia fu l’occasione per risolvere alcune criticità dell’Ateneo: venne rinnovato il corpo docente, chiamando nelle commissioni d’esame i più noti scienziati del paese, e si cominciarono poi ad acquistare testi scientifici per la biblioteca. Su di una cosa tuttavia i docenti non avevano influenza: la poca permeabilità dei possidenti alle riforme agrarie. Il docente Raffaello Antinori nel 1864 decise, a malincuore, di trasferire la cattedra di agraria nel nuovo Istituto Tecnico, confidando in tempi migliori per gli insegnamenti universitari.
Questi tempi arrivarono alla fine del secolo grazie al suo allievo preferito, Eugenio Faina , che va considerato come il proprietario terriero più illuminato del tempo. Nel 1896 venne inaugurato il Regio Istituto Superiore Agrario di San Pietro diretto da Eugenio e fin dall’inizio emerse la vocazione ‘universale’ della nuova scuola superiore. La genesi dell’Istituto superiore agrario di San Pietro rimane uno degli episodi centrali nella storia degli insegnamenti superiori agrari in Italia. In quegli anni esistevano già altri tre istituti superiori: Pisa, Portici e Milano, nelle intenzioni di Eugenio Faina l’Istituto perugino avrebbe dovuto distinguersi dalle facoltà già esistenti per una maggiore attenzione all’aspetto sperimentale e dimostrativo. La disponibilità di grandi aziende agrarie benedettine collegate al monastero, sede dell’Istituto, e i musei inseriti al suo interno fecero il resto. Nell’Istituto agrario vennero trasferite la maggior parte delle raccolte scientifiche universitarie e a queste si affiancarono poi i musei e gli orti realizzati ex-novo dai docenti coadiuvati da Faina: il museo e l’orto agrario ; il campo sperimentale con le collezioni di fruttifere ; il museo di geologia e pedologia ; il museo di entomologia; il museo e l’orto botanico il museo di microbiologia; il museo di zootecnia; l’osservatorio meteorico-sismico e il regio deposito di macchine agricole.
I più importanti collaboratori di Eugenio Faina furono: Mario Castelli, che tenne i vari insegnamenti afferenti all’ingegneria agraria; Alessandro Vivenza, docente di agronomia e coltivazioni ed Ezio Marchi che ricoprì la cattedra di zootecnia.
Libri, macchinari, piante e animali provenienti da tutto il mondo andavano a costituire nell’Istituto il maggiore patrimonio scientifico della regione; il tutto avrebbe dovuto consentire agli studenti di affrontare le sfide globali e soprattutto la sfida locale di rinnovamento dell’agricoltura mezzadrile. Il destino del ‘pilastro della società tradizionale’ è noto: il contratto mezzadrile cominciò a scricchiolare nel secondo dopoguerra e nei primi anni’70 del Novecento sparì dalle ormai ‘deruralizzate’ campagne dell’Italia centrale.
I mondi che scompaiono creano nostalgia e interesse e il fiorire di decine di musei etnografici legati alla ‘civiltà contadina’ è stato molto studiato da museologi, sociologi ed antropologi. Per paradosso gli antichi musei agrari, collegati alle varie strutture didattiche: dalle scuole rurali primarie fino alle cattedre universitarie, hanno vissuto col tramonto della mezzadria un graduale abbandono. Questi musei erano originariamente indispensabili per rimanere aggiornati sulle novità riguardanti le attrezzature agrarie, le nuove cultivar vegetali e le razze allevate più produttive, ma col declino del settore primario questa funzione diventò sempre meno importante.
Negli ultimi anni anche il mondo universitario ha cominciato a considerare l’importanza della memoria e della valorizzazione di quanto rimaneva del patrimonio museale, patrimonio che nel nostro caso è stato in parte recuperato per allestire il Laboratorio di storia dell’agricoltura, inaugurato nel 2010 nel polo museale di Casalina.